Dalla curiosità alla ricerca: il mio percorso tra accademia,
industria e innovazione farmacologica

Erika Primavera1, 2

1In silico Drug Discovery Laboratory (I2D Lab), Dipartimento di Scienze Farmaceutiche dell’Università degli Studi di Perugia; 2Sibylla Biotech S.p.A., Bresso (MI)

e-mail: erika.primavera@dottorandi.unipg.it



Indice

1. Un percorso guidato dalla curiosità scientifica

2. Il progetto di ricerca: bersagliare AKT1 per combattere tumori e malattie rare

3. Esperienza pratica: tra laboratorio accademico e realtà aziendale

4. Ricerca applicata e impatto sociale

5. Riflessione finale: il ruolo della scuola e della formazione scientifica

Riferimenti bibliografici



Abstract. Scientific curiosity can become a driving force for both personal and professional growth. In this article, I share my PhD journey in Pharmaceutical Sciences, focused on studying AKT1 as a therapeutic target for cancer and rare diseases. Through computational modeling, in vitro experimentation, and collaboration with industry, I had the opportunity to explore innovative approaches to drug design. This experience enriched not only my scientific skills but also my perspective on the social role of research and the value of scientific education.

Keywords: curiosità scientifica; ricerca applicata; impatto sociale; formazione scientifica



1. Un percorso guidato dalla curiosità scientifica

Mi chiamo Erika Primavera, sono laureata in Chimica e Tecnologia Farmaceutiche all’Università degli Studi di Perugia e attualmente sono una dottoranda in Scienze Farmaceutiche presso il Dipartimento di Scienze Farmaceutiche della stessa università. Durante gli anni universitari, ho sviluppato una forte passione per il mondo dei farmaci, dei principi attivi e del loro ruolo nella regolazione dei processi patologici dell’organismo umano. In particolare, gli insegnamenti di chimica farmaceutica, farmacologia e farmacoterapia mi hanno permesso di comprendere come anche una piccola modifica nella struttura di una molecola possa influenzarne profondamente l’attività biologica.

Questa consapevolezza ha acceso in me un forte interesse per la relazione tra struttura chimica e attività farmacologica, trasformando la mia curiosità iniziale in una vera e propria passione per la scoperta e lo sviluppo di nuovi farmaci.

Spinta da questo entusiasmo, ho scelto di svolgere la mia tesi sperimentale presso l’I2D Lab (In Silico Drug Discovery Lab) del Dipartimento di Scienze Farmaceutiche, sotto la supervisione della Prof.ssa Maria Letizia Barreca, del Prof. Giuseppe Manfroni e del Dr. Andrea Astolfi. È stata un’esperienza fondamentale, durante la quale mi sono avvicinata all’impiego delle metodologie di computer-aided drug discovery (CADD) per la progettazione razionale di piccole molecole di interesse farmaceutico. Da quel momento, si è aperto per me un mondo affascinante, che ha dato una direzione chiara al mio percorso professionale: ho compreso che volevo dedicarmi alla chimica farmaceutica computazionale, proseguendo con un dottorato di ricerca volto ad approfondire le metodologie di progettazione in silico e contribuire allo sviluppo di nuove molecole a potenziale terapeutico.

Il progetto di dottorato, supervisionato dalla Prof.ssa Maria Letizia Barreca, dal Dr. Andrea Astolfi e dal Dr. Alexandros Patsilinakos, si sta svolgendo in un contesto scientificamente vivace e interdisciplinare, arricchito dalla collaborazione con l’azienda biotecnologica Sibylla Biotech S.p.A., che ha co-finanziato la mia borsa di studio nell’ambito di un progetto PNRR.

Le mie attività di ricerca, incentrate sulla progettazione di nuove molecole per il trattamento di patologie oncologiche e di una rara sindrome pediatrica (la sindrome di Proteus), si sono rivelate complesse, ma estremamente stimolanti. Mi hanno permesso di acquisire solide competenze tecniche nell’ambito della progettazione razionale di molecole a potenziale attività terapeutica. Allo stesso tempo, questa esperienza si sta configurando come un’importante occasione di crescita trasversale, offrendomi una visione più ampia e concreta del mondo della ricerca, sia nel contesto accademico che in quello industriale.

Inoltre, questo percorso ha avuto – e continua ad avere – un impatto significativo anche sul piano personale. Le sfide affrontate quotidianamente mi hanno spinta a mettermi alla prova e a rimettere in discussione molte certezze, permettendomi di consolidare alcuni punti di forza, scoprirne di nuovi e, al contempo, comprendere meglio i miei limiti: accettarli, talvolta superarli, oppure imparare a gestirli in modo più consapevole.

2. Il progetto di ricerca: bersagliare AKT1 per combattere tumori e malattie rare

Il cuore del mio progetto riguarda lo studio della proteina AKT1, una chinasi serina/treonina coinvolta in numerosi processi cellulari fondamentali come la proliferazione, la sopravvivenza e il metabolismo cellulare [1]. AKT1 è un attore chiave nella via PI3K/AKT/mTOR (PAM) e la sua importanza biologica è ampiamente documentata, così come il suo ruolo nella patogenesi di diversi tipi di tumore, tra cui il carcinoma mammario e ovarico [2, 3]. In numerose neoplasie, infatti, la via di segnalazione PAM è spesso iperattivata, contribuendo alla crescita incontrollata delle cellule tumorali e alla loro resistenza ai segnali apoptotici.

Ma non solo: AKT1 è anche coinvolta nella sindrome di Proteus, una malattia genetica pediatrica ultra-rara [4]. Questa patologia è causata da una mutazione somatica post-zigotica puntiforme nel gene AKT1, in cui la mutazione di una singola base azotata in posizione 49 determina la mutazione E17K (glutammato lisina). Questa alterazione provoca un’iperattivazione costitutiva della proteina, che si verifica solo in una parte delle cellule dell’organismo. Il risultato è un fenotipo a mosaico, caratterizzato da una crescita asimmetrica e disorganizzata di diversi tessuti corporei. La rarità della sindrome, unita alla complessità del mosaicismo genetico, rende particolarmente difficile lo sviluppo di trattamenti mirati ed efficaci per i pazienti affetti da tale condizione.

In questo contesto, il nostro progetto di ricerca si pone l’obiettivo di identificare piccole molecole in grado di inibire selettivamente AKT1, sia nella sua forma wild-type che nella variante mutata associata alla sindrome di Proteus. Per raggiungere lo scopo, abbiamo adottato due strategie complementari: una basata sull’inibizione allosterica della proteina, l’altra sull’impiego di una nuova tecnologia innovativa che interferisce con il processo di ripiegamento proteico.

Nel primo caso, ci siamo focalizzati su inibitori allosterici, ovvero molecole in grado di legarsi a regioni della proteina differenti dal sito attivo, dove invece agiscono gli inibitori competitivi. Questo approccio offre un vantaggio importante in termini di selettività: i siti allosterici tendono a essere meno conservati tra proteine simili (come le diverse isoforme di AKT o le chinasi in generale), riducendo così il rischio di effetti collaterali dovuti a interazioni indesiderate. In altre parole, è più efficace progettare molecole capaci di colpire in modo specifico solo la proteina target, lasciando inalterate quelle non coinvolte nella patologia. Attraverso l’integrazione di diverse tecniche computazionali – come lo sviluppo di modelli farmacoforici, il docking molecolare e le simulazioni di dinamica molecolare – con la sintesi chimica e saggi biologici in vitro, stiamo cercando di identificare molecole capaci di modulare efficacemente l’attività di AKT1 in modelli cellulari tumorali. Il secondo approccio, ancora più innovativo, si basa sull’applicazione della tecnologia PPI-FIT (Pharmacological Protein Inactivation by Folding Intermediate Targeting) [5], attualmente in licenza esclusiva a Sibylla Biotech S.p.A (www.sibyllabiotech.it).

Questa strategia non mira a inibire la proteina una volta ripiegata e funzionante, bensì a interferire precocemente con il suo processo di ripiegamento, colpendo forme intermedie della catena polipeptidica durante la biosintesi. In pratica, l’obiettivo è individuare piccole molecole in grado di legare la proteina in fase di folding, stabilizzandola in una conformazione non funzionale. Questo fa sì che la cellula riconosca la proteina come “difettosa” e ne attivi i meccanismi di degradazione. Si tratta di un approccio estremamente promettente, che rappresenta un’alternativa radicale rispetto agli inibitori tradizionali oggi in sviluppo o già disponibili sul mercato. Nel caso specifico di AKT1, offre il vantaggio di aggirare i limiti degli inibitori classici – come la scarsa selettività tra isoforme, la competizione con elevati livelli intracellulari di ATP o l’emergere di resistenze – colpendo la proteina in una fase precocissima della sua biosintesi e impedendole di raggiungere la conformazione attiva. Questo meccanismo apre nuove prospettive per il trattamento di patologie in cui AKT1 è iperattivata, anche in forme mutanti difficili da inibire con strategie convenzionali.

3. Esperienza pratica: tra laboratorio accademico e realtà aziendale

Uno degli aspetti più formativi del mio percorso è stata la possibilità di integrare concretamente il contesto accademico con quello industriale. Il progetto è stato infatti cofinanziato da un programma nazionale che prevedeva sia un periodo all’estero in un laboratorio internazionale, sia una collaborazione diretta con l’azienda biotecnologica partner, che ha cofinanziato la mia borsa di dottorato. Questa struttura mi ha offerto l’opportunità di confrontarmi con metodologie, tempi e priorità differenti, arricchendo in modo significativo la mia formazione, sia sul piano scientifico che personale.

Ho svolto il periodo all’estero in Germania presso il gruppo della prof.ssa Andrea Volkamer. È stata un’esperienza altamente formativa dal punto di vista professionale, che mi ha permesso di confrontarmi con un ambiente di ricerca specializzato in bioinformatica e scienze computazionali, ambiti complementari al mio background.

Allo stesso tempo, si è rivelata un’importante occasione di crescita personale: trovarmi in un contesto completamente nuovo, di cui non conoscevo nemmeno la lingua madre, mi ha spinta a mettermi in gioco ogni giorno. Far parte di un gruppo internazionale così accogliente e collaborativo ha ampliato rapidamente il mio orizzonte, sia scientifico che umano.

Posso dire con gratitudine che in Germania ho trovato un ambiente quasi familiare, stimolante sul piano scientifico e ricco sul piano umano, in cui ho costruito relazioni autentiche e condiviso, con leggerezza e solidarietà, anche le inevitabili difficoltà di un percorso all’estero.

Ogni esperienza, specialmente quella all’estero, è unica e ha un notevole impatto, sia dal punto di vista pratico (ad es., trasferirsi in un altro stato, adattarsi a nuove abitudini e culture) che emotivo (ad es., affrontare la distanza dai propri cari, comunicare in un’altra lingua per vivere/sopravvivere). Per quanto mi riguarda, è stata un’esperienza che consiglio fortemente, proprio per il valore trasformativo che è in grado di offrire, dentro e fuori dal laboratorio.

Parallelamente, la collaborazione con l’azienda mi ha permesso di osservare più da vicino le dinamiche della ricerca industriale. Pur condividendo lo stesso obiettivo – lo sviluppo di nuove molecole bioattive – ho potuto cogliere differenze significative in termini di tempistiche, risorse e approccio progettuale. In questo contesto, ho avuto l’opportunità di applicare concretamente la tecnologia innovativa PPI-FIT al mio target proteico, lavorando all’interno di un team multidisciplinare. In sintesi, la possibilità di muovermi tra tre contesti – accademico nazionale, internazionale e industriale – mi ha offerto una formazione completa e trasversale, permettendomi di sviluppare competenze tecniche avanzate e, al tempo stesso, abilità trasversali fondamentali come la gestione del tempo, la comunicazione interdisciplinare e il lavoro orientato agli obiettivi. Un bagaglio che considero prezioso per affrontare con consapevolezza e flessibilità le sfide future della mia ricerca.

4. Ricerca applicata e impatto sociale

Al di là dell’interesse scientifico, ciò che rende questo progetto particolarmente significativo è il suo potenziale impatto concreto sulla vita delle persone. Identificare inibitori efficaci e sicuri di AKT1 potrebbe, infatti, aprire la strada allo sviluppo di nuove terapie mirate, sia per pazienti oncologici resistenti ai trattamenti attualmente disponibili, sia per individui affetti da malattie rare come la sindrome di Proteus, per le quali mancano tuttora opzioni terapeutiche validate.

In questo contesto, la ricerca traslazionale rappresenta un approccio strategico che mira a colmare il divario tra la scienza di base e l’applicazione clinica. Significa trasformare la comprensione dei meccanismi molecolari – come il ruolo di AKT1 in patologie complesse – in soluzioni terapeutiche concrete, attraverso la progettazione, la selezione e la validazione preclinica di molecole bioattive, fino ad arrivare alle fasi cliniche. Non si tratta solo di generare conoscenza, ma di orientarla verso un beneficio reale per i pazienti, costruendo un percorso solido dal laboratorio al letto del malato.

5. Riflessione finale: il ruolo della scuola e della formazione scientifica

Riflettendo sul mio percorso, riconosco quanto sia stato profondamente influenzato da una curiosità nata molto presto e coltivata nel tempo grazie a esperienze, incontri e insegnamenti significativi. È da una scintilla, talvolta quasi impercettibile, che può prendere forma una direzione di vita. Per questo credo fortemente nell’importanza di offrire ai giovani contesti in cui quella scintilla possa accendersi e trovare spazio per svilupparsi.

In un mondo in cui la scienza è sempre più centrale per comprendere la realtà e affrontare le grandi sfide globali – dalla salute alla sostenibilità – è fondamentale promuovere una solida cultura scientifica fin dai primi anni di scuola. Attraverso attività pratiche, linguaggi accessibili e un approccio educativo coinvolgente, possiamo sostenere nei bambini quella naturale tendenza a farsi domande, osservare, sperimentare, capire.

Se accompagnata nel tempo con attenzione e strumenti adeguati, questa curiosità si trasforma in spirito critico: la capacità di analizzare con consapevolezza, distinguere tra opinioni e fatti, interpretare i dati, ragionare in modo autonomo e affrontare problemi complessi con metodo e apertura mentale.

Non tutti sceglieranno un percorso scientifico, ed è giusto così. Ma tutti possono trarre beneficio da un’educazione che valorizzi il pensiero razionale, la capacità di porsi domande e di cercare risposte fondate. La scienza, infatti, non è solo una disciplina da studiare, ma una lente attraverso cui guardare il mondo con maggiore profondità, responsabilità e spirito critico.

Il mio augurio è che sempre più studenti possano incontrare lungo il loro cammino persone, strumenti e occasioni in grado di trasformare la semplice curiosità in passione duratura. Che possano vedere nella scienza non un traguardo imposto, ma una possibilità concreta per comprendere meglio sé stessi, gli altri e il mondo, contribuendo con il proprio sguardo e il proprio pensiero al progresso e al benessere collettivo.

Riferimenti bibliografici

[1] B. D. Manning, A. Toker, Cell, 2017, 169(3), 381-405.

[2] Y. He, M. M. Sun, G. G. Zhang, J. Yang, K. S. Chen, W. W. Xu, B. Li, Signal Transduct. Target Ther., 2021, 6(1), 425.

[3] C. Garcia-Echeverria, W. R. Sellers, Oncogene, 2008, 27(41), 5511-5526.

[4] L. Biesecker, Cassidy and Allanson’s Management of Genetic Syndromes, Wiley, 2021, 763-773.

[5] G. Spagnolli, T. Massignan, A. Astolfi, et al., Commun. Biol., 2021, 4(61), 62.