Bartolomeo Gosio, dalla candidatura al Nobel all’oblio

Giovanni Appendino

Università del Piemonte Orientale, Dipartimento di Scienze del Farmaco, Novara

e-mail: giovanni.appendino@uniupo.it



Indice

1. Introduzione

2. Cenni biografici

3. La scoperta dell’organicazione dei metalli

4. La scoperta dell’acido micofenolico

5. La carriera nella pubblica amministrazione

6. Perché Gosio fu dimenticato?

7. Conclusioni

Ringraziamenti

Riferimenti bibliografici



Abstract. Bartolomeo Gosio (1866-1944) discovered the organication of metals in 1891 and purified the first antibiotic (micofenolic acid) two years later, next abandoning research at the turning of the century and dedicating the rest of his professional life to issues of public health. In the light of his seminal discoveries, which led to his nomination for the Nobel Prize in 1922, the oblivion of Gosio is surprising, and related to a series of unfortunate circumstances including the association of the gas named after him (Gosio’s gas) to pseudo-scientific claims in the realm of history and medicine. Rather than for his discoveries, Gosio was long remembered for allegedly carrying out the first studies on penicillin, but his contribution to this field is limited to the invention of the name “penicillin”, which, however, he used in the context of studies on organoarsenical compounds and not of antibiotics. The research on Gosio’s gas provides an interesting starting point for discussing the complexity of environmental issues and their reductive association to a single chemical compound or class of chemical compounds.

Keywords: Bartolomeo Gosio; gas di Gosio; acido micofenolico; trimetilarsina; organicazione dei metalli; arsenico



1. Introduzione

La priorità di una scoperta è sovente tanto più dibattuta quanto più è importante la scoperta stessa, e il caso dell’ossigeno è emblematico della difficoltà di giungere ad una soluzione definitiva quando è in gioco non solo la cronologia, ma il concetto stesso di scoperta (osservazione o interpretazione di un evento?) [1].

Questa incertezza vale ancora di più per questioni di priorità sulla genesi di un campo di ricerca, che è sovente nello spirito del tempo più che nella mente di un singolo ricercatore. Esistono tuttavia pochi dubbi che la nascita della chimica bio-organometallica sia legata al nome di Bartolomeo Gosio (1866-1944), almeno quanto quello di Edward Frankland (1825-1899) è legato alla nascita della chimica organometallica stessa.

Bartolomeo Gosio non è un ennesimo Carneade di cui si vuole mettere in luce l’ingiusto oblio, ma un caso curioso e per molti versi paradossale, di un ricercatore ricordato essenzialmente per ricerche che non fece (primi studi sulla penicillina) e, fra quelle che effettivamente fece, per la loro dubbia correlazione con la medicina (morbo di Gosio), la storia (la morte di Napoleone) e la cronaca (la sindrome della “morte in culla”). L’oblio sulla figura di Gosio è sorprendente anche per due “records” che detiene. Si tratta dell’unica persona con un gas eponimo (il gas di Gosio) e del primo ricercatore che purificò un principio antibiotico, cioè un costituente microbico dotato di azione antibatterica (l’acido micofenolico) [2]. Figura di spicco anche nella lotta all’inquinamento ambientale, nel giro alcuni decenni passò dalla candidatura al Nobel per la Medicina del 1922 (assegnato Hill e Meyerhof per i loro contributi sullo studio della contrazione muscolare) all’oblio quasi totale, esemplificando come la percezione del lavoro di un ricercatore possa essere distorta da barriere linguistiche, pregiudizi ed eventi storici.

Non a caso, in un dibattito su Science sull’importanza della traduzione in lingua inglese della letteratura scientifica europea in lingua originale, ci si chiese retoricamente nel 1957 “What would have happened …. if Gosio’s 1896 paper, which noted the antibiotic properties of a Penicillium strain, had appeared in Science instead of in an Italian sanitary engineering journal?” [2].

Gli studi di Gosio sui composti organo-arsenicali servirono a bandire definitivamente l’utilizzo dei coloranti arsenicali in ambienti domestici, e ricordano, per certi versi, quelli che scienziati coraggiosi intrapresero contro il tabacco delle sigarette e i gas colpevoli del buco dell’ozono.

2. Cenni biografici


Bartolomeo Gosio nacque il 16 marzo 1863 a Magliano d’Alba (Magliano Alfieri dal 1910), un comune di campagna del Roero, la porta del Monferrato, che contava allora meno di 2000 abitanti e dove il padre Giacomo, e prima di lui anche il nonno, erano veterinari [3, 4]. In molti articoli, e anche su Wikipedia, la data di nascita è riportata come 17 marzo, suggerendo un’ambiguità comune anche alla data di nascita di Giuseppe Verdi e di don Bosco [5], e legata all’obbligo del battesimo entro 24 ore dalla nascita. La data dei registri parrocchiali risultava, quindi, talvolta posticipata rispetto a quella effettiva di nascita, dato che i genitori, per non rischiare la vita del bambino, lo portavano al Battesimo qualche giorno dopo la nascita, posticipandola per non incorrere nelle ire del parroco. Tuttavia, il registro parrocchiale di Magliano d’Alba riporta la data del 16 marzo [3], e la data posteriore del 17 rappresenta pertanto un errore, purtroppo ben radicato nella letteratura. La madre Antonia Troya era parente dell’educatore Vincenzo Troya (1806 - 1893), uno dei fondatori della moderna pedagogia scolastica. Grazie ai suoi auspici ed ai sacrifici della madre, Bartolomeo, rimasto orfano di padre al termine delle scuole elementari, poté frequentare il Ginnasio di Alba associato al seminario vescovile. Bartolomeo si distinse per le doti musicali, e ricevette il permesso dal rettore di suonare il pianoforte e l’armonium dell’istituto durante le ore di ricreazione [3]. La passione per la musica non lo abbandonò mai. Nella casa di Magliano, dove trascorreva le vacanze, aveva un organo, ora nella chiesa del seminario vescovile di Alba, e un suo biografo ricorda persino una sua attività di compositore [3], di cui non sono tuttavia riuscito a trovare traccia. Non esistendo il Liceo ad Alba, Bartolomeo lo frequentò a Torino, iscrivendosi poi alla Facoltà di Medicina di Torino, dove iniziò a lavorare nei laboratori di Edoardo Perroncito (1847-1937), titolare della prima cattedra di Parassitologia istituita in Italia presso una Facoltà di Medicina. In quegli anni Perroncito, amico di Pasteur e suo collaboratore nello studio del carbonchio, aveva brillantemente risolto il problema dell’anemia dei minatori, identificandola con una parassitosi da anchilostoma (Ancylostoma duodenale) e proponendo un estratto etereo del rizoma della felce maschio per il suo trattamento [6]. Per questi studi, Perroncito aveva acquisito fama europea, e la sconfitta di una importante malattia professionale fece di lui uno degli iniziatori della moderna medicina del lavoro. Perroncito era veterinario di formazione, originario di un paese (Viale d’Asti) non lontano da Magliano, e coetaneo di Giacomo Gosio. È quindi possibile che Giacomo Gosio, prematuramente scomparso, e il famoso scienziato si conoscessero, e che questa amicizia abbia favorito l’introduzione di Bartolomeo nei laboratori di Parassitologia di Perroncito. L’inatteso trasferimento a Roma per gli ultimi due anni del corso di studio fu forse in relazione con il trasferimento a Roma del laboratorio, intitolato a Pasteur, che Perroncito aveva creato a Torino per la produzione del vaccino contro il carbonchio [6].

Nel 1888, Gosio discusse con successo a Roma una tesi sui “Protozoi come Agenti di Malattia”, lavoro da lui effettuato nel laboratorio torinese di Perroncito [3, 4]. La fama di Perroncito aiutò indubbiamente Gosio a ottenere lo stesso anno della laurea un posto come assistente nei laboratori di chimica e batteriologia della Direzione di Sanità di Roma, ente istituito due anni prima dal primo dei due governi Crispi.

Il giovane ricercatore ebbe modo di completare la sua formazione biochimica con due periodi di studio in Germania. Il primo si svolse fra Monaco, Lipsia e Berlino. Particolarmente significativo fu però il secondo periodo di studio a Berlino nei laboratori di Max Rubner, allievo di von Baeyer, dove collaborò con Hans Thierfelder, impegnato in quegli anni con Emil Fischer nello studio dei carboidrati dei lieviti, e dove conobbe anche Robert Koch (1858-1922), con cui lavorò sul bacillo del colera [3, 4]. È possibile che Gosio abbia anche interagito con Albert Koch (1858-1922), il “Koch” della microbiologia agraria, più in luce con i suoi interessi di ricerca al ritorno in Italia.

Gli studi sui derivati arsenicali fatti a Roma ebbero enorme eco e gli spianarono la strada alla direzione dei Laboratori Scientifici della Direzione di Sanità, dove rimase dal 1899 fino al suo pensionamento nel 1930, morendo infine a Roma il 13 aprile 1944.

Gosio ebbe indubbiamente una formazione multidisciplinare che applicò a studi, che oggi classificheremmo di chimica delle fermentazioni, e che si svolsero in un arco di tempo relativamente limitato, in quanto a partire dall’inizio del nuovo secolo fu sempre più assorbito da ricerche applicative nel campo della sanità pubblica, e in particolare della malaria.

3. La scoperta dell’organicazione dei metalli

La prima scoperta importante di Gosio avvenne nel 1891, a soli tre anni dalla laurea e al ritorno dal primo periodo di formazione in Germania [7], e fu descritta in due lunghe note, apparse l’anno seguente [8], che portarono a chiarire l’eziologia di un avvelenamento domestico misterioso, già descritto nel 1830, che si sospettava essere legato alla moda delle tappezzerie verdi, allora molto diffuse [9]. Le due note apparvero su una rivista a diffusione molto limitata, [8], ma ulteriori articoli di Gosio su Science [10] e sul Berichte [11] fecero conoscere il nome del giovane ricercatore e le sue ricerche in tutto il mondo.

La rilevanza sociale della scoperta di Gosio richiede una sua contestualizzazione. Se da un lato il verde è il colore più diffuso sulle terre emerse, dall’altro la clorofilla naturale è troppo instabile e non è utilizzabile come colorante (la clorofillina alimentare è un suo derivato dove il magnesio è sostituito dal rame (II), e non era ancora stata scoperta) [9]. I coloranti verdi più utilizzati nell’Ottocento furono il “verde di Scheele” (miscela riconducibili ad arsenito acido di rame (II), HCuAsO3) e il suo derivato più stabile “verde di Parigi” o verde di Schweinfurt, una combinazione di arsenito e acetato di rame (II) (Cu2[As2O6]OAc) [9]. Goethe con la sua Teoria dei Colori lanciò la moda del verde come tinta rasserenante e ben presto tappezzerie, vestiti, giocattoli e rilegature dei libri si tinsero di verde in tutta Europa. Con la moda del verde arrivò anche un’epidemia di morti improvvise e malesseri misteriosi, la cui sintomatologia intestinale ricordava, per certi versi, il colera (diarrea e dolori addominali). Gmelin nel 1839 notò per primo che in stanze umide tappezzate di verde si percepiva talvolta un odore “di topo”, che ricordava l’arsina (AsH3) [12], e la potenziale tossicità delle tinture arsenicali portò al loro divieto di utilizzo in Francia, Germania e Svezia, mentre, almeno fino alle ricerche di Gosio, nessuna misura fu presa in Italia, dove la carta da parati era del resto meno diffusa che nel Nord Europa [12]. In Inghilterra la lobby dei parati impedì il loro divieto, asserendo che i pigmenti arsenicali non erano né volatili e né rimuovibili dalle tappezzerie. Un produttore arrivò addirittura ad affermare che neanche leccando le tappezzerie verdi si riuscisse a liberare l’arsenico dalla loro matrice cellulosica. Secondo gli industriali, gli avvelenamenti erano associati a prodotti malfatti, in cui il pigmento non si era legato bene alla carta, e che potevano quindi rilasciare polveri arsenicali. La diffusione delle tappezzerie verdi in Inghilterra aumentò vertiginosamente a partire dal 1836, non solo per l’eccellenza dei prodotti dell’azienda fondata da William Morris, cara ai pre-raffaeliti, ma anche per la riduzione della loro tassazione, la meccanizzazione della tintura e la diffusione del processo Kraft per la produzione economica di pasta di cellulosa dal legno e non più da stracci [9]. Da prodotto di lusso, la carta da parati divenne accessibile a tutti, realizzando gli ideali socialisti ed egualitari cari a Morris. È stato calcolato, con possibile esagerazione, che nel 1858 le tappezzerie verdi occupassero in gran Bretagna una superficie di oltre 250 km2 [2].

Il dibattito sui coloranti arsenicali rimase rovente per decenni, in quanto agli indiscussi casi di avvelenamento si associava la mancanza di un possibile meccanismo di trasferimento di polveri e derivati arsenicali dalle tappezzerie all’ambiente. L’osservazione di Gmelin sull’odore particolare che si percepiva talvolta nelle camere tappezzate con coloranti arsenicali fece sospettare un possibile trasferimento gassoso, per il quale, in assenza di un meccanismo chimico, Selmi propose nel 1874 un’origine biologica legata alla produzione microbica di idrogeno che avrebbe in seguito ridotto i pigmenti arsenicali ad arsina [14]. Nell’assenza di evidenze sperimentali, il dibattito fra polveri e gas arsenicali come agenti causativi della tossicità da pigmenti arsenicali rimase irrisolto.

Al ritorno dal suo primo soggiorno in Germania, Gosio iniziò a coltivare varie muffe che si sviluppano su matrici alimentari, notando la formazione di un odore agliaceo da alcune colture fungine, ma non da colture batteriche [7]. Incuriosito, riprese l’ipotesi di Selmi sulla generazione biologica di derivati arsenicali e la dimostrò in modo molto semplice. Forte dell’esperienza di chimica e di batteriologia acquisita nei laboratori tedeschi, Gosio trattò con anidride arseniosa (1%) della polpa di patata, che venne poi chiusa in una cantina umida e non aerata. Con il passare dei giorni, monitorò poi visivamente il processo di ammuffimento e, in modo olfattivo, lo sviluppo di un odore agliaceo, notando che i due processi erano strettamente correlati. A questo punto, Gosio raccolse il gas e lo sottopose al saggio di Marsh, confermando la presenza di arsenico, ipotizzandone correttamente la natura organo-arsenicale (RxAsHy, x + y =3), e non arsinica (AsH3) [11]; inoltre, identificando nella polpa di patata ammuffita vari funghi in grado di organicare l’anidride arseniosa e inoculando con essi la carta da parati al verde di Scheele, dimostrò la formazione dello stesso gas che si era formato durante l’ammuffimento della patata addizionata di anidride arseniosa [11]. Il gas fu chiamato gas di Gosio dal chimico inglese Challenger, che riprese gli studi del ricercatore italiano negli anni Trenta del secolo scorso, ed è da allora noto con questo nome [15].

La capacità di organicare l’arsenico portò all’identificazione di un gruppo di funghi che Gosio denominò arsenomiceti e di cui studiò in modo specifico il Penicillium brevicaule, (oggi classificato come Scopulariopsis brevicaulis). Questi studi furono messi in dubbio da vari ricercatori in Germania e negli Stati Uniti, ma Gosio difese tenacemente la validità delle sue osservazioni, mandando agli increduli ricercatori campioni di arsenomiceti la cui capacità di organicare i sali di arsenico fu pienamente confermata [2]. La struttura del gas arsenicale e la sua tossicità furono a lungo dibattute. A ragione della velenosità dell’arsina e di esperimenti su conigli e ratti, Gosio considerò tossico il gas arsenicale prodotto dagli arsenomiceti e lavorò alla sua caratterizzazione con Pietro Biginelli, chimico piemontese attivo a Roma nell’Istituto di Sanità [16]. Si trovò che il gas formava un prodotto cristallino per assorbimento in una soluzione di cloruro mercurico in acido cloridrico (soluzione di Biginelli) e dall’analisi elementare si dedusse, erroneamente, una struttura dietilarsinica per il precipitato. Questa struttura fu rivista da Challenger, il successore di Ingold all’università di Leeds [15]. Lo spunto per gli studi di Challenger, cui si deve anche il termine di “morbo di Gosio”, fu la morte di due bambini per apparente avvelenamento arsenicale [15]. Challenger ripeté le esperienze di Gosio, ottenendo anche lui un precipitato per gorgogliamento dei vapori prodotti nella fermentazione nella soluzione di Biginelli, e corresse la struttura originariamente proposta (dietilarsina) a trimetilarsina. L’analisi elementare di composti a basso contenuto in carbonio, come il complesso dell’organoarsenicale con il cloruro mercurico, non era semplice e Challenger poté sfruttare gli enormi progressi nell’analisi elementare associati al lavoro di Pregl e allo sviluppo di tecniche microanalitiche, non disponibili a Gosio e Biginelli ai tempi dei loro studi. Challenger studiò in dettaglio anche il meccanismo della bioriduzione e organicazione di arsenico ed altri metalli e il ciclo di queste reazioni porta ancora oggi il suo nome [17]. Anche Challenger considerò il gas altamente tossico, ma la velenosità del gas di Gosio è stata di recente messa in discussione per la scarsità di evidenze sperimentali a suo supporto. La trimetilarsina è usata industrialmente per la preparazione dell’arseniuro di gallio (GaAs), un importante semiconduttore, mediante un processo di deposizione di vapori organometallici [12]. La letteratura tossicologia cita per la trimetilarsina un valore di LC50 superiore a 20.000 ppm per un’esposizione di 4 ore, mentre invece la dimetilarsina e l’arsina sono molto più tossiche (LC50 di 130 e 5-45 ppm nelle stesse condizioni). In base a questi dati, Cullen suggerì che il morbo di Gosio non fosse associato alla produzione di trimetiarsina, ma a composti tossici di varia natura prodotti dallo sviluppo di muffe e batteri e dispersi come polvere nell’ambiente [12]. La questione è ancora irrisolta, perché non si può escludere che la bioorganicazione dell’arsenico non porti anche alla formazione di dimetilarsina o di altri derivati organoarsenicali tossici non precipitati dalla soluzione di Biginelli. La natura stessa del morbo di Gosio non è chiara.

A partire dal Seicento, l’arsenico divenne largamente disponibile in Europa con lo sviluppo dell’industria mineraria tedesca [13]. L’anidride arseniosa era abbondantemente usata in ambienti domestici come ratticida, al punto che è stato ipotizzato che la scomparsa della peste in Europa dalla fine del Seicento fosse legata proprio alla diffusione dell’arsenico come ratticida [13]. L’arseniato di piombo fu, fino all’introduzione del DDT, l’insetticida agricolo più utilizzato, e l’uso del roxarsone (acido 4-idrossi-3-nitrofenilarsonico) per la coccidiosi dei polli e la stimolazione della loro crescita è stato bandito nella EU solo nel 1999 e in USA nel 2011 [13]. L’anidride arseniosa era anche utilizzata come cosmetico per schiarire e rendere più luminosa la pelle e non solo in saponi, ma anche in preparati orali, come la soluzione di Fowler. Questo tonico medicinale a base di arseniato monopotassico (KH2AsO4) fu popolare per tutto l’Ottocento come cosmetico orale, precorrendo il concetto di “beauty from within” di cui è piena oggi la pubblicità sugli integratori. La soluzione di Fowler doveva la sua popolarità all’uso cronico di anidride arseniosa fra gli abitanti della Stiria per promuovere la forza muscolare degli uomini e aumentare l’attrattività delle ragazze, famose per la bellezza della loro carnagione [18]. L’arsenico era, quindi, così diffuso in ambienti domestici che casi di avvelenamento avrebbero potuto accadere indipendentemente dallo sviluppo di arsenomiceti o dalla diffusione di polveri arsenicali dalla tappezzeria delle pareti.

Il dibattito sul gas di Gosio tornò alla ribalta negli anni Cinquanta, quando si trovarono alte concentrazioni di arsenico nei capelli di Napoleone [2]. Napoleone morì ufficialmente di cancro allo stomaco, ma, a ragione del clima umido di Sant’Elena e della presenza di pigmenti arsenicali nella tappezzeria della casa dove viveva nell’esilio, si ipotizzò che il gas di Gosio potesse aver avuto un ruolo importante nella morte dell’Imperatore. La casa, che ospitava Napoleone a Sant’Elena, era stata tappezzata due anni prima dell’arrivo dell’illustre ospite nel 1821 e la sua analisi rivelò concentrazioni di arsenico inferiori a quelle inglesi ed altri campioni coevi, anche se l’umidità dell’isola potrebbe aver portato a una più alta bio-organicazione del pigmento arsenicale e una riduzione del suo contenuto nella tappezzeria. In tempi più recenti (1956) si osservò un caso imbarazzante di possibile avvelenamento arsenicale domestico a Roma. La vittima fu Clare Boothe Luce, la fascinosa e ferocemente anticomunista ambasciatrice degli Stati Uniti in Italia. Il soffitto della stanza dove dormiva a Villa Taverna, sede dell’ambasciata, era affrescato con motivi floreali a base di pigmenti arsenicali e si ipotizzò che il pigmento fosse stato mobilizzato dalle vibrazioni causate da una lavapiatti del piano superiore. Circolarono anche voci di un possibile avvelenamento da parte di agenti dell’Unione Sovietica e la questione non venne mai completamente chiarita. Erano i tempi della Guerra Fredda e l’articolo del Time intitolato “Arsenic for the Ambassador” fece il giro del mondo [18]. Debilitata nel fisico e nella mente, l’ambasciatrice dovette rassegnare le dimissioni, riprendendosi tuttavia dopo alcuni anni e morendo poi trent’anni dopo di tumore al cervello.

Il gas di Gosio è stato di recente associato alla sindrome della morte improvvisa in culla (Sudden Infant Death Syndrome, SID), in quanto derivati di arsenico, antimonio o fosforo presenti naturalmente o addizionati come fungicidi e ritardanti di fiamma a materassi e coperte, potrebbero subire un processo di biometilazione e generare gas tossici cui i neonati sarebbero particolarmente sensibili [2]. La biancheria da letto di un neonato morto per SID evidenziò effettivamente la presenza di tre funghi in grado di organicare l’arsenico, ma la loro capacità era molto limitata e richiedeva concentrazioni non realistiche di arsenico per un moderno contesto familiare. Altri funghi isolati in precedenza da materassi risultarono essere in realtà batteri e incapaci di organicare tale elemento [2].

Con la scoperta degli arsenomiceti e l’organicazione dell’arsenico (e in studi successivi anche di selenio e tellurio [2]), Gosio scoperchiò un vero e proprio vaso di Pandora, non necessariamente solo di implicazioni dannose. In particolare, la bioriduzione di selenio e tellurio fu utilizzata da Gosio per mettere a punto un metodo per accertare la sterilità dei vaccini e dei preparati iniettabili in generale. In presenza di cellule batteriche, il tellurito ed il selenito di potassio (K2Te e K2Se) vengono ridotti allo stato metallico, con formazione di un flocculato brunastro nella preparazione, diagnostico di contaminazione microbica [2].

Gosio aveva in precedenza già sviluppato un metodo di rivelazione dell’arsenico basato sulla formazione di arsenoderivati volatili, aumentando molto la sensibilità del test di Marsh [2]. Il saggio di Gosio, ampiamente usato in medicina legale, era basato su estrazione del materiale in esame con acqua, concentrazione e distribuzione su polpa di patata inoculata con arsenomiceti. La positività del saggio era legata allo sviluppo di un caratteristico odore agliaceo e la sua sensibilità era eccezionale per i criteri analitici del tempo (1 microgrammo/grammo di materiale analizzato, 1 ppm). Il saggio arsenicale di Gosio, come anche quello di Marsh, era tuttavia solo qualitativo e fu migliorato negli anni Trenta sostituendo, come mezzo di crescita, la polpa di patata con l’agar, ma fu poi reso obsoleto dallo sviluppo di metodiche quantitative per il dosaggio dell’arsenico.

4. La scoperta dell’acido micofenolico

La scoperta che funghi produttori di composti tossici si possono sviluppare su matrici alimentari fu probabilmente alla base del coinvolgimento di Gosio nello studio della pellagra. Nel 1892, fu infatti inviato nel Ferrarese, una delle zone più colpite da questa patologia, che rimase sconosciuta, fino al 1938, quando Elvehjem ne dimostrò la natura di avitaminosi associata alla scarsa biodisponibilità della vitamina PP dal mais [20]. La tesi dominante in Italia, elaborata da Lombroso [21] e sostenuta da Gosio, era quella che la pellagra fosse una malattia dovuta alla produzione di tossine fungine presenti nel mais mal conservato. Gosio iniziò a studiare sistematicamente i funghi associati all’ammuffimento del mais nel tentativo di identificare la pellagrozoina, l’elusiva tossina che si pensava fosse responsabile di questa patologia devastante. Fra le muffe che si sviluppano sul mais, Gosio selezionò quelle che non ne alterano in modo significativo le proprietà organolettiche e che erano, quindi, in grado di svilupparsi eludendo il filtro sensoriale rappresentato da olfatto e gusto. Di particolare rilevanza sembrò a Gosio il Penicillum glaucum (ora classificato come P. brevicompactum), anche per la rapidità con cui si sviluppava sul mais, provocando un’alterazione nota come “verderame” per il colore verdastro che con attenta osservazione si poteva notare sulle pannocchie. Nella seduta della Reale Accademia di Medicina di Torino del 16 maggio 1893 Gosio riportò che, per estrazione del micelio del fungo coltivato su polenta ed estrazione con etere acquoso, si otteneva una frazione fenolica dotata di spiccata attività contro il batterio del carbonchio e che, per ingestione orale, provocava già a basse dosi disturbi alla visione, cefalea e vertigini. Questa frazione dava reazioni cromatiche simili a quelle dell’acido salicilico e risultava positiva al saggio di Liebermann per i fenoli (nitrito di sodio in acido solforico concentrato) [22]. La sua purificazione risultò oltremodo tediosa, per la presenza dell’alta concentrazione di lipidi nei chicchi del mais, e Gosio fu in grado di riferire dell’isolamento di un composto cristallino dall’estratto etereo del fungo solo tre anni dopo [23]. Per l’isolamento del principio antibiotico, la polenta infettata con le spore del fungo veniva ripartita fra acido solforico diluito ed etere. Per evaporazione della fase eterea si otteneva un olio che galleggiava alla superficie di un estratto resinoso e che era eliminato in parte già per decantazione. Dopo una serie di lavaggi, trattamenti decoloranti e cristallizzazioni, si otteneva finalmente un acido fenolico: la resa era modesta, circa 180 mg da 1,8 kg di polenta [23]. Basandosi su un’erronea analisi elementare, Gosio ipotizzò che il composto potesse essere l’acido 4-idrossidiidrocinnamico e non lo studiò ulteriormente, anche perché non rilevante per la pellagra e di purificazione difficile [23]. L’osservazione che Gosio dovette utilizzare 150 mg del prezioso prodotto cristallino, che aveva ottenuto per l’analisi elementare, e che gliene rimasero solo 5 per lo studio dell’attività biologica dà un’idea della vera e propria rivoluzione che portò il lavoro di Pregl sulla microanalisi [24].

Il principio antibiotico della muffa studiata da Gosio fu riscoperto da ricercatori americani nel 1912 e, come acido micofenolico, fu studiato da Howard Florey nel 1946 [25], l’anno dopo il conferimento del Premio Nobel per le sue ricerche sulla penicillina. La struttura del composto fu tuttavia chiarita solo nel 1952 [26], quasi sessant’anni dopo il suo isolamento da parte di Gosio. Nella sua pubblicazione, Florey rese onore a Gosio per aver purificato per primo un composto ad azione antibiotica da un fungo. L’acido micofenolico è un inibitore della sintesi ex novo delle purine ed è oggi usato, sotto forma di pro-drug (micofenolato di mofetile), come farmaco immuno-soppressore per prevenire la reazione di rigetto associata al trapianto d’organo [27]. L’acido micofenolico rappresenta in effetti il primo anello di una catena di scoperte di prodotti fungini che rende ancora oggi onore alla chimica italiana (rifampicina, adriamicina, daunomicina) [28].

5. La carriera nella pubblica amministrazione

Con la nomina a direttore dei Laboratori di Sanità Pubblica nel 1899, Gosio, già libero docente all’Università di Torino, rinunciò alla carriera accademica, che gli si era aperta con la vincita della cattedra di Igiene a Sassari, e si allontanò gradualmente dalla ricerca, interessandosi sempre più a problemi di salute pubblica. Si occupò in più occasioni delle epidemie di colera nel Sud Italia, della tubercolosi e, soprattutto, della malaria, che imperversava in vaste regioni italiane impedendone lo sviluppo [2-4]. Nel 1898, Gosio aveva ospitato e collaborato con Koch in Toscana durante il suo soggiorno di due mesi per progettare una campagna di trattamento della malaria. L’Italia era il paese europeo più colpito dalla malaria e Koch fu impressionato dalla capacità organizzativa e l’efficienza di Gosio, per cui spese parole di encomio che ebbero probabilmente un ruolo nella sua nomina a direttore. Koch giocò un ruolo importante nella controversa assegnazione del premio Nobel per la medicina del 1902 a Ronald Ross, invece che a Giovanni Battista Grassi, per la scoperta sul ruolo della zanzara Anopheles nella trasmissione della malaria. La priorità della scoperta era così dibattuta che il comitato del premio Nobel si rivolse a Koch per mettere fine alla disputa e assegnare il premio Nobel. Grassi, un’autorità nel campo dell’entomologia, aveva un carattere scontroso e aveva in precedenza polemizzato con Koch proprio in relazione all’origine della malaria e il giudizio del microbiologo tedesco, che assegnò la scoperta a Ross, fondamentalmente un dilettante nello studio degli insetti, non fu probabilmente super partes [29]. Koch e Gosio rimasero amici e in contatto per tutta la vita e Gosio ci ha lasciato il ricordo di una discussione domenicale fra i due scienziati riguardo alla definizione della felicità. Secondo Gosio, la felicità consisteva “nell’arte di non perdere un ideale”, mentre secondo Koch la felicità era invece “la passione della ricerca per rispondere ai bisogni umani” [3]. Gosio fu un ardente sostenitore della teoria di Koch della “bonifica umana”, cioè del trattamento precoce con il chinino (solfato di chinina) al primo apparire dei sintomi della malattia, in modo da prevenire la diffusione della malattia. Tuttavia, a ragione dell’impossibilità di una somministrazione regolare del chinino per l’isolamento degli insediamenti rurali e di istituire una quarantena effettiva, i risultati della campagna antimalarica del 1901 nella Maremma furono inferiori alle attese [3, 4].

Gosio è ricordato come uno dei padri della sanità pubblica italiana per la l’istituzione delle colonie per i bambini malarici e la fondazione della scuola di malariologia a Nettuno per la formazione di medici e infermieri [3, 4].

Il grande prestigio di Gosio è testimoniato dalla richiesta che fece il governo tedesco per avere una sua consulenza sul morbo di Haff (Haffkrankreit), una strana malattia apparsa improvvisamente nel 1925 fra i pescatori attivi nella zona lacustre della Prussia fra Danzica (polacca) e Königsberg [3, 4]. La patologia provocava forti dolori muscolari e si sospettava essere legata a rifiuti industriali provenienti da due fabbriche di cellulosa che utilizzavano una pirite ricca di arsenico per la produzione, via anidride solforosa, del solfuro e del solfato richiesto dal processo Kraft. Gosio identificò il P. brevicaule e altri arsenomiceti fra i sedimenti del fiume e il semplice cambio nello smaltimento delle acque reflue risolse la situazione. Oggi si pensa che, più che ad arsenomiceti, il morbo di Haff sia legato alla proliferazione di cianobatteri produttori di tossine.

6. Perché Gosio fu dimenticato?

L’oblio scientifico che avvolse la figura di Gosio è sorprendente alla luce non solo della rilevanza delle scoperte che fece, ma anche degli onori che gli tributarono i contemporanei. Per i suoi studi sull’organicazione dei metalli Gosio ricevette infatti importanti riconoscimenti, fra i quali la medaglia d’oro all’Esposizione delle Industrie Chimiche di Torino del 1925, la medaglia dell’Istituto di Medicina Tropicale di Amburgo e il premio Riberi della Reale Accademia di Medicina di Torino nel 1908 [2-4]. Quest’ultimo premio, di notevole rilevanza monetaria (20.000 lire in oro, oltre 40.000 euro secondo la tabella di conversione del Sole 24 Ore), suscitò una certa sorpresa, in quanto la Reale Accademia di Medicina di Torino era dominata dalla Massoneria (i lucenti serpenti verdi della capitale piemontese, secondo una rivista medica milanese che alcuni anni dopo metteva in dubbio l’imparzialità della commissione del premio) [4] e Gosio era invece un fervente cattolico. Fu anche nominato per il premio Nobel della medicina nel 1922, finendo in una delle terne da cui furono poi premiati ex equo Archibald Vivian Hill e Otto Fritz Meyerhof per le loro scoperte sulla fisiologia muscolare.

L’oblio che avvolse Gosio fu così profondo che il chimico americano Bentley, che venne in contatto con la sua figura negli studi sull’acido micofenolico e la disputa sulla priorità nella scoperta di questo antibiotico, si vide costretto, per riuscire ad avere qualche informazione su Gosio, a cercare in un elenco di accademici italiani qualcuno che avesse questo nome, sperando fosse parente con il Gosio dell’acido micofenolico [2]. La persona che contattò, una professoressa di matematica finanziaria dell’università di Genova, non risultò essere sua parente, ma riuscì a fornire a Bentley indicazioni e contatti per la stesura di quella che è l’unica monografia dedicata a Gosio [2].

Le cause dell’oblio di Gosio furono molteplici. In primis la brevità della sua carriera come ricercatore e la rilevanza sociale del suo ruolo amministrativo, che eclissò in pratica il passato da ricercatore. Rifiutando la nomina a professore di Igiene a Sassari e accettando quella a direttore del Laboratorio della Sanità Pubblica, di fatto Gosio lasciò, dopo neanche un decennio, la ricerca di base per dedicarsi alla pubblica amministrazione, anche impressionato dalla povertà in cui viveva la popolazione rurale, e di cui lasciò descrizioni commoventi nelle sue missioni nelle aree malariche [4]. Per il suo impegno nella gestione della sanità e nella lotta alla malaria, Gosio è ancora oggi ricordato da una via a Roma.

Una seconda ragione è sicuramente legata alla natura multidisciplinare delle sue ricerche, a cavallo fra la chimica, la microbiologia e la medicina, un po’ come Pasteur, ma senza le sue eccellenze in questi tre campi per compensare la diluizione del talento su aree distinte. Se Gosio assegnò effettivamente una struttura sbagliata al suo gas e al principio antibiotico isolato del Penicillum, pur tuttavia non andò molto lontano nel caso della trimetilarsina e correttamente identificò la natura carbossilica e fenolica dell’acido micofenolico. Gosio morì poi nell’aprile del 1944, con Roma ancora occupata e con la comunità scientifica italiana devastata dalla guerra. La commemorazione fu limitata al Bollettino parrocchiale di Magliano, nel cui cimitero fu inumato [30], e solo dopo la guerra uscirono alcuni brevi necrologi focalizzati sul suo impegno nella sanità pubblica. È anche possibile che l’attribuzione a Gosio dei primi studi sulla penicillina abbia ulteriormente nociuto al suo profilo scientifico. L’associazione di Gosio alla penicillina è il risultato della curiosa convergenza di tre eventi: l’isolamento del primo antibiotico da parte di Gosio, il nome di penicillina arsenicale, che Gosio diede al composto volatile risultante dall’organicazione dell’arsenico, e gli studi sul principio antibiotico delle colture di Penicillum fatti in quegli anni da un altro italiano, Vincenzo Tiberio [31]. Purtroppo, questa associazione rimane in alcuni testi importanti di storia della medicina, la Morton’s Medical Bibliography e la McGrew Encyclopedia of Medical History [2].

7. Conclusioni

Le ricerche di Gosio sui composti arsenicali forniscono uno spunto interessante di discussione sulla tossicologia ambientale, scienza molto complessa che è sovente sbrigativo e riduttivo associare a un singolo composto o a una singola classe di composti chimici. Il morbo di Gosio, definito modernamente come una patologia associata allo sviluppo di muffe in un contesto abitativo, è infatti una tipica patologia ambientale. Se effettivamente la tossicità del gas di Gosio è solo il risultato di una arsenofobia generalizzata, allora lo sviluppo di gas arsenicali maleodoranti avrebbe persino potuto, paradossalmente, salvare molte vite, agendo come una sorta di campanello d’allarme per la presenza di tossine microbiche che i nostri sensi non erano in grado di percepire. La questione è tuttavia ancora aperta, perché, come discusso, esiste la concreta possibilità che il gas di Gosio fosse una miscela di composti di cui solo la trimetilarsina precipitava come complesso mercurico per trattamento con il reattivo di Biginelli. La tossicità degli organoarsenicali dipende in modo drammatico dal loro grado di alchilazione e la presenza di omologhi inferiori (dimetil- or monometilarsina) avrebbe sicuramente cambiato il profilo tossicologico del gas di Gosio. In termini di incompleta caratterizzazione, il gas di Gosio fa quindi pendant con un altro preparato arsenicale, il liquido fumante di Cadet, da cui partirono gli studi sul cacodile di Bunsen di così grande rilevanza storica per la chimica [32].

Volendo andare più lontano, l’arsenico esemplifica come sia il contesto d’utilizzo che definisce utile o dannoso un composto. L’anidride arseniosa come ratticida potrebbe aver debellato la peste in Europa ed è anche un prezioso farmaco per il trattamento della leucemia, ma il suo utilizzo come cosmetico per rendere lucida e brillante la pelle non può aver fatto che danni. Alla domanda se l’arsenico è dannoso, la risposta più sensata è quindi dire che “dipende”, andando oltre la facile e semplicistica dicotomia fra bene e male con cui problemi complessi vengono generalmente polarizzati nei mezzi di comunicazione.

Ringraziamenti

Sono grato al Prof. Walter Cabri (Università di Bologna) per avermi inviato copia dei lavori originali di Gosio sull’acido micofenolico (riff. 22 e 23) e alla dott.ssa Silvia Idrofano dell’Università di Torino per il suo aiuto nel reperimento degli studi di Selmi sui derivati arsenicali.

Riferimenti bibliografici

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[4] G. Aimassi, Bartolomeo Gosio. Lo scienziato di Magliano a un passo dal Nobel, Roero. Terra Ritrovata, 2008, 0, 32-39. https://www.researchgate.net/publication/289245568_Bartolomeo_Gosio_Lo_scienziato_di_Magliano_a_un_passo_dal_Nobel (ultimo accesso 2 agosto 2025)

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